Fotografare un paesaggio come si fa un ritratto in studio può sembrare un paradosso, ma è quasi la stessa cosa. Si tratta di lavorare con la luce sul soggetto e sullo sfondo per farne risaltare le caratteristiche somatiche (o geologiche), le rughe del terreno, la dolcezza dei declivi, l’asprezza dei solchi. Per sottolineare dei contorni o per dare importanza ai volumi, per precisare le forme o per esaltare la profondità.
Chi lavora in studio può disporre le fonti luminose a suo piacimento, ma la situazione è molto diversa per chi lavora sul “campo”. La fonte di luce è una sola e non sempre disponibile. Bisogna aspettare. Quando il nostro tecnico delle luci ha voglia di lavorare è quasi un Dio, ma se non ha voglia … a nulla valgono le pur copiose dosi di insulti e di imprecazioni. Dobbiamo saper aspettare (e questo aspettare è una grande lezione di umiltà e di vita). Bisogna sapere in anticipo quando ci sarà la luce buona, e a volte neanche conta. A volte la luce passa, scivola, corre, si insinua, si propaga, avvolge, sfuma, va. E con la complice ombra fa risaltare la materia.
In queste situazioni diventa esaltante fotografare il paesaggio, stare all’erta per rubare l’attimo, mentre comunemente si pensa che debba essere una occupazione del tutto rilassante. È proprio in tali circostanze che si manifesta quel non so che di magico che ci consente di trasfigurare piuttosto che riprodurre semplicemente una porzione di territorio. Ed è così che si può catturare l’anima dell’ambiente che ci circonda, che non è altro che il riflesso della nostra anima. Perché il paesaggio finisce con l’orizzonte, ma comincia dentro di noi.
Claudio Marcozzi